Eloise Hess | Second hand

“…the picture is first felt by us…” –Jacques Lacan, “What is a Picture?” 

Within the series, a gesture repeats. Each time it appears, it is not the same. Yet also each time, it is of hands reaching. They overlap, once, almost into a prayer; in others, they grasp, unevenly, for something that is not there. Reaching repeatedly, the hands frame an intention: a desire to see. 

The photographs are taken on a disposable camera. The ease of the single-use, point-and- shoot facilitates the promise of photography: an instantaneous mastery of space
and time in the making of a record, on sight, of light writing itself into memory. An instrument of capture, the camera is a dark room for this precise aim of seizing the present as it passes, a seeing that can be held and seen again. 

But it is a painting that holds the photograph—or photographs, twelve selected from nearly five hundred—of the missed aim to make a picture out of what is seen. The artist Eloise Hess (b. 1995) collaborated with her father Charles Hess (b. 1961) to register the slow-motion atrophying of the linkages between the hand, mind, and eye; the lapses, an accumulating discontinuity, between his actions and his intention. One gesture replaces, or imperceptibly iterates, the other; one way of seeing, through one medium, falters, while attended to, in another medium, by a different way. In the lag, the image forms. 

Paintings are not photographs. The latter historically supersede the purpose of the former as imitations, or representations, of reality. Like modern acheiropoieta, icons that are not made by hand, mere presence leaves a mark, verifying contact with the insubstantial. The photographic impulse to fix this circuit of truth and touch into a picture of, a clear likeness or impression, devolves, in Hess’s paintings, into an intensive blur. Translucent shadows, edges, and occlusions arise as the camera slips, descends, turns inward, away. Dim gradations serially displace sight. 

A sense of passage permeates these paintings—but how? Moving neither forward nor backward, the image is extracted from its photographic substrate and reassembled on multiple sheaths of silkscreen and inkjet prints or transfers bound by alternating layers of encaustic in a vertical still of stacked process. Where the successive frames of a projected filmstrip can create the illusion of cinematic continuity aided by the fallibility, 

the slowness, of the human eye—here, the desire of painting, its unfolding of a gesture, of many, and more, gestures, interrupts the photograph’s single plane. Time, gesture, and desire indivisibly expand a singular instant. 

The medium of desire is time. Desire never attains its aim, just as the second hand on
an analog clock keeps time at a distance by elongating, indefinitely, the space between the minutes and hours that divide a day, or a life. Vision, alongside desire, persists in afterimages. Hess photographs her father—a photographer experiencing the incremental forgetting associated with early-onset Alzheimer’s disease—trying to see as his capacity to picture the world, to remember and put it in order, fades. The obscure or not taken shots that her paintings discretely develop do not offer a revelation but instead point to a shared time. A desire to touch time’s movements through sight opens the orientation of the picture, and the relation, to change. 

The poet Arkadii Dragomoshchenko begins his book Xenia with a scene of reversible reciprocity that turns on seeing oneself being seen, wanting, oneself, to see: “We see only what / we see // only what / lets us be ourselves— / seen.” It is a seeing that one feels. 

Text by Jennifer Pranolo 

“…l’immagine è prima di tutto sentita da noi…”
– Jacques Lacan, “Che cos’è un’immagine?”

All’interno della serie, un gesto si ripete. Ogni volta che appare, non è lo stesso. Eppure, ogni volta, sono mani che si tendono. Si sovrappongono, una volta, quasi in preghiera; in altre, si afferrano, in modo differente, per qualcosa che non c’è. Tendendo ripetutamente, le mani incorniciano un’intenzione: un desiderio di vedere.
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Le fotografie sono scattate con una macchina usa e getta. La facilità del punto e scatto facilita la promessa della fotografia: un immediato dominio dello spazio e del tempo nella creazione di un registro, su vista, della luce che si scrive nella memoria. Uno strumento di cattura, la macchina fotografica è una camera oscura per questo preciso scopo di afferra- re il presente mentre passa, una visione che può essere trattenuta e rivista.
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Ma è un dipinto che tiene la fotografia – o fotografie, dodici selezionate da quasi cinque- cento – del mancato intento di fare un’immagine di ciò che si vede. L’artista Eloise Hess (n. 1995) ha collaborato con suo padre Charles Hess (n. 1961) per registrare il lento deteriora- mento dei collegamenti tra mano, mente e occhio; le interruzioni, un accumulo di disconti- nuità, tra le sue azioni e la sua intenzione. Un gesto sostituisce, o itera impercettibilmente, l’altro; un modo di vedere, attraverso un mezzo, vacilla, preso in considerazione, in un altro mezzo, da un modo diverso. Nel ritardo, l’immagine si forma.
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I dipinti non sono fotografie. Queste ultime storicamente sostituiscono lo scopo dei primi come imitazioni, o rappresentazioni, della realtà. Come acheropite moderne, icone non fat- te da mano umana, la mera presenza lascia un segno, verificando il contatto con l’incorpo- reo. L’impulso fotografico di fissare questo circuito di verità e tatto in un’immagine di, una chiara somiglianza o impressione, si degrada, nei dipinti di Hess, in una sfocatura intensa. Ombre traslucide, bordi e occlusioni sorgono mentre la fotocamera scivola, discende, si volge verso l’interno, via. Gradazioni deboli spostano serialmente la vista.
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Un senso di passaggio permea questi dipinti—ma come? Non muovendosi né avanti né indietro, l’immagine viene estratta dal suo substrato fotografico e assemblata nuovamen- te su molteplici strati di serigrafia e stampe a getto d’inchiostro o trasferimenti legati da strati alternati di encausto in un fermo verticale di processo impilato. Dove i fotogrammi successivi di una pellicola proiettata possono creare l’illusione di continuità cinematografica aiutata dalla fallibilità, la lentezza, dell’occhio umano—qui, il desiderio della pittura, il suo dispiegarsi di un gesto, di molti, e più, gesti, interrompe il piano singolo della fotogra- fia. Il tempo, il gesto e il desiderio si espandono indivisibilmente in un istante singolare.
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Il mezzo del desiderio è il tempo. Il desiderio non raggiunge mai il suo scopo, proprio come la lancetta dei secondi su un orologio analogico tiene il tempo a distanza allungando, inde- finitamente, lo spazio tra i minuti e le ore che dividono un giorno, o una vita.
La visione, accanto al desiderio, persiste nelle immagini residue. Hess fotografa suo padre—un fotografo che sperimenta la dimenticanza incrementale associata alla malattia (Alzheimer precoce)—cercando di vedere mentre la sua capacità di raffigurare il mondo, di ricordare e metterlo in ordine, svanisce. Gli scatti oscuri o non catturati che i suoi dipinti sviluppano discretamente non offrono una rivelazione ma indicano piuttosto un tempo condiviso. Un desiderio di toccare i movimenti del tempo attraverso la vista apre l’orienta- mento dell’immagine, e la relazione, al cambiamento.
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Il poeta Arkadii Dragomoshchenko inizia il suo libro Xenia con una scena di reciprocità reversibile che si basa sul vedere se stessi essere visti, volendo, a propria volta, vedere: “Vediamo solo ciò che / vediamo // solo ciò che / ci lascia essere noi stessi— / visti.” È un vedere che si sente.

Testo di Jennifer Pranolo