FRANCESCO SNOTE

Travisato Travasato

Salina, 2022

Cara Matta,

ci sono dei fattori che non si possono assolutamente escludere quando si ha l’occasione di partecipare a una mostra su un’isola del mediterraneo:

  1. La salita e la discesa (o ascesa e caduta) in un’isola di origine vulcanica, quindi forgiata sull’inquietudine e sul ribollire sotto una crosta nera ostile, irascibile, in continua mutazione e temporanea.
  2. Ogni luce che si incontra è un faro e ogni faro segna salvezza o disastro.
  3. Il problema di essere in un posto troppo bello e quindi, di conseguenza e nella natura, il tuo mezzo funziona da spalla destra agli eventi e alle emozioni, ai tramonti rossi e a questo genere di cose a cui non si è abituati.
  4. La questione dell’orizzonte. Pensando per esempio alle persone che sono in vacanza e che per tutta la loro permanenza non fanno altro che lanciare all’orizzonte delle brevi occhiate tra una pausa relax e l’altra. Non si capisce cosa si vada cercando in queste brevi e fugaci occhiate, ma tutte le volte che ci penso mi riaffiora alla mente una donna che un mattino al bar mi disse che “Cadendo dall’alto una figura rimpicciolisce e cessa brutalmente di rimpicciolire in una posa da burattino. Una figura che si allontana è invece una figura che cade dolcemente e, anziché sfracellarsi, si disperde come una nuvola o un alone di acqua su un piano”.

Una mostra su un’isola deve avere la stessa delicatezza di una figura che si allontana e può aiutarti a comprendere che l’orizzonte è una linea disegnata che puoi gestire, che non esiste un sopra e un sotto ma soffi e immagini che avvolgono e abbracciano, aiutandoti a ricordare momenti già vissuti in un tempo non definito o ancora da vivere. Sfortunatamente Salomon Rossbach, famoso mercante di diamanti di Manhattan pensava di esserci arrivato, e nel 1961 si lanciò dal suo appartamento al trentottesimo piano lasciando un biglietto con scritto “Dal momento che non esiste più un sopra e un sotto, io mi butto” e cessò brutalmente di rimpicciolire in una posa da burattino.

Per questo fare una mostra su un isola può essere molto pericoloso e bisogna prendere coscienza di 3 piani fondamentali che nelle rappresentazioni, e nelle mie in particolare, sono sempre esistiti:

  1. Qualcosa che viene proposto in primo piano (un problema, uno sguardo, un atteggiamento).
  2. Un’ipotetica architettura, un mezzo, un oggetto o scenario che ti potrebbe portare alla soluzione finale e farti sentire al riparo.
  3. Lo spazio infinito e ambiguo dalle infinite probabilità e riluttante a qualsiasi risposta perché chi le cerca si ferma al punto primo, ovvero al problema.

Questo è uno dei motivi, rudi per intendere che un’opera o feticcio o risultato parzialmente completato fa parte di una serie di episodi perpetui e che l’opera finita non esiste.
Il mare è uno spazio profondo che nasconde e custodisce il passato e le memorie dell’uomo. E’ quindi pericoloso per chi non riesce a scrutare in fondo all’acqua o in lontananza nell’orizzonte.
La camera o come dir si voglia lo spazio della mostra, diventa un’isola quasi dimenticata dal passaggio di navi mercantili e di sguardi euforici, quindi, di innominabile serietà.
Queste sono le AVVERTENZE per iniziare la spedizione verso il Monte Analogo di noi altri e per guardare.
Le tavole disegnate saranno dei giochi di specchi molto fragili, degli scenari che NON TORNANO e dei binocoli che guardano le cose allontanarsi.
Le sculture saranno le accompagnatrici e l’agevolazione dei nostri spazi interni e esterni, qualcosa su cui riposare e accasciarsi esausti.
Insieme saranno senza etica e morale, senza sinderesi e legami accademici di bene e male. Potrebbero palesarsi come dei sospiri iperbolici che ci avvicinano di qualche passo a quella linea d’orizzonte che tanti reputano impossibile da raggiungere semplicemente perché legati ai soliti mezzi di trasporto comuni.
…………….
Cos’è quest’oggetto, ieri vivo e stamani morto, “questa testa divenuta oggetto, piccola scatola misurabile, insignificante?”. Si vorrebbe aggiungere, “insignificante” perché “misurabile”. Entrata ormai nel campo del métron, dell’antropometria, in quest’era del Terrore post rivoluzionario in cui l’invenzione del metro accompagna la decapitazione delle teste in nome della Ragione, il volto umano cessa di essere rappresentabile. Infatti il volto è precisamente ciò che non si può misurare, ciò che appunto fa dell’uomo una non-cosa, un non-oggetto, senza limiti, un no-thing, per cui l’esistenza dell’Altro, di fronte a sé, non è dell’ordine del “c’è “, del “quello”, neutro, anonimo, misurabile, ma dell’ordine dell’ “è qualcuno”, un “tu”, un “voi”, che m’interroga, mi sfida, mi arresta, mi sorprende, trattiene la mia attenzione. Cos’è il contegno, cos’è che contiene il volto, come la brocca contiene l’acqua? Perché si dice di qualcuno che il dolore sommerge, che i suoi tratti “si decompongono”? Cosa vogliono indi- care quelle espressioni di cui la lingua è tanto ricca, come “salvare la faccia”, “perdere la faccia”, “far bella figura”…, se non tutte quelle mimiche che segnano l’imprevedibile del volto, l’imprevisto, al di là del visibile, che vediamo nascere e in cui si afferma la libertà dell’Altro di fronte a noi, è la sua irriducibilità di individuo.
Residui di una visione: ecco quel poco, quel quasi nulla, il granello di vita che la visione dell’artista mantiene sul fondo dell’occhio, nel punto più sensibile della retina, quando tutta la realtà attorno si è decantata, al termine di quell’operazione che ho chiamato travaso, passaggio di un viso nell’altro, rovesciamento della visione del modello nello sguardo dello scultore.

Jean Clair, Teste che guardano, 1992